L’IMPERO CHE PRODUCE TUTTO
di
FABRIZIO ONIDA 05/02/2003
Sette anni fa l’analista David Roche contrapponeva sul Wall Street Journal «le
due facce della Cina moderna» e si chiedeva chi avrebbe vinto: i liberali
riformatori o i conservatori delle industrie di Stato. Oggi, mentre il leader
della «quarta generazione» Hu
Jintao
prende le redini di
un Paese guidato nel dopoguerra da Mao (1946-’76), Deng Xiaoping (anni ’80) e
Jiang Zemin
(anni ’90) e dopo l’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del
Commercio (Wto), la partita sembra chiusa a favore dei primi. Il procedere
impetuoso di questa sorta di «turbosocialismo di mercato» non ha precedenti
nella storia e continua a sorprendere gli osservatori, spaventare i concorrenti,
eccitare i cultori degli scenari globali.
Quali sono i tratti più significativi di questa straordinaria marcia che
seppellisce in un cono d’ombra tanto il «Grande balzo in avanti» quanto la
Rivoluzione culturale, dai cui disastri l’attuale generazione dei leader
cinquantenni è stata vaccinata?, E quali i grandi rischi ancora presenti in un
sistema che attrae tanti affari ma che ha ancora una sua intrinseca fragilità?
Per circa diciotto degli ultimi venti secoli di storia la Cina è stata la
massima potenza mondiale. Tra il 1820 e il 1950 la quota dell'economia cinese
sul Pil mondiale è crollata da un quarto a un ventesimo, oggi è risalita al 12%
(stime di A. Maddison dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo
sviluppo economico, basate sulla parità dei poteri d'acquisto) con il 21% della
popolazione mondiale. Dieci anni fa Cina e India, che con 2,3 miliardi di
abitanti insieme fanno il 37% della popolazione mondiale, avevano circa lo
stesso reddito pro capite, oggi quello cinese è il doppio.
La Cina è ormai il sesto esportatore e importatore mondiale (anzi il terzo se
includiamo Taiwan e Hong Kong, pur depurato dal commercio di transito) dopo Usa
e Germania, avendo superato il Giappone (il porto di Shenzhen è diventato l’anno
scorso il sesto al mondo per traffico di navi container, superando Rotterdam e
Los Angeles). Come una vera e propria macchina da guerra, basata su bassi
salari, elevata produttività, straordinaria capacità e velocità di imitazione
del nuovo e sofisticata organizzazione commerciale, la produzione cinese sta
rimettendo in discussione l’intero modello di sviluppo tirato dal commercio
estero, modello cavalcato con successo dai suoi vicini dell'Asia Orientale (da
Singapore a Corea, Malaysia, Thailandia, Indonesia, Filippine, fino al Giappone
incluso). La prorompente competitività cinese gioca su una gamma sempre più
ampia di prodotti, che vanno da quelli tradizionali come tessile-abbigliamento,
calzature e giocattoli a rilevanti comparti tecnologici come la componentistica
elettronica, i motori e le attrezzature meccaniche e ancora televisori,
elettronica di consumo, elettrodomestici, telefonia. Concludeva un recente
articolo del Wall Street Journal : «Il Paese è diventato il capannone
industriale del mondo, con una produzione così massiccia e diversificata da
esercitare una pressione disinflazionistica a livello globale praticamente su
tutto, dai tessili ai telefoni cellulari ai funghi coltivati».
E mentre l’India - tanto per continuare il paragone - con le sue leggi e i suoi
bizantinismi burocratici continua a scoraggiare gli investitori stranieri, negli
ultimi dieci anni la Cina ha battuto ogni record, ricevendo 600 miliardi di
dollari di investimenti diretti dall’estero, e arrivando nel 2002 a superare gli
stessi Usa come paese di insediamento degli investimenti multinazionali. Le
maggiori imprese della classifica di Fortune oggi producono e acquistano in
Cina. Un gruppo europeo come Philips gestisce 23 stabilimenti ed esporta dalla
Cina due terzi delle produzione. Nell’ultimo decennio il Giappone ha dimezzato i
propri investimenti produttivi nell’Asia orientale e li ha raddoppiati in Cina.
Nissan e Toyota hanno concluso accordi per produrre complessivamente 1,3 milioni
di veicoli entro il 2010. Le multinazionali operanti in Cina hanno creato 23
milioni di posti di lavoro, concorrono al 10% degli investimenti, al 20% del
gettito fiscale, al 40% delle esportazioni. In Cina si producono più del 50%
delle macchine fotografiche vendute nel mondo, il 30% dei condizionatori e dei
televisori, il 25% delle lavatrici, il 40% dei forni a microonde. E in molti
casi cresce vertiginosamente l’apporto dei fornitori locali di componenti per i
prodotti elettronici assemblati dalle grandi multinazionali.
Ma non è solo potenza economica, è anche progresso sociale e modernizzazione.
Negli ultimi venti anni la popolazione cinese condannata alla povertà assoluta
(meno di un dollaro al giorno) è scesa di 270 milioni e la mortalità infantile è
calata di 500 mila unità: un miglioramento gigantesco, purtroppo accompagnato da
crescenti divari fra regioni povere all’interno e ricche regioni costiere. Nello
stesso periodo 400 mila giovani hanno studiato all'estero e 140 mila sono
rientrati. Circa 50 mila studenti cinesi entrano ogni anno nelle università
americane. Nel 2001 le università cinesi hanno sfornato 465 mila laureati in
materie scientifiche e ingegneristiche, avvicinandosi al livello assoluto degli
Usa (e ogni ingegnere cinese costa oggi 15.000 dollari l’anno, inclusi i
contributi sociali, circa un decimo rispetto agli standard della Silicon Valley).
Quest’anno la Cina varerà la sua prima missione dell’uomo nello spazio. Al
Genomics Institute di Pechino hanno decodificato il genoma del riso, finendo
sulla copertina di Science .
Per non parlare dei faraonici progetti infrastrutturali che modernizzeranno
agricoltura e trasporti: diga delle Tre Gole (30 miliardi di dollari), il
colossale progetto (60 miliardi di dollari) di un sistema di canali e pompe
idriche per convogliare le acque dal fiume centrale (Yangtze) verso il nord
(Fiume Giallo), 8.500 miglia di ferrovie entro il 2005 (incluso il collegamento
col Tibet che passa a quota 5200 metri), collegamenti aeroportuali come il treno
a lievitazione magnetica che collegherà a 270 miglia all’ora l’aeroporto di
Shanghai, e altri ancora.
Tutto questo colpisce, suggestiona, fa pensare, sollecita le imprese e le banche
(anche italiane) ad agire e disegnare progetti per non restare fuori dal gioco.
Ma non possiamo ignorare le grandi sfide - almeno quattro - che i nuovi piloti
del turbosocialismo dovranno sostenere nei prossimi anni e dal cui esito
dipenderà lo slancio o il crollo del sistema: quadro normativo, disoccupazione e
tensioni sociali, crisi finanziaria delle banche e delle imprese statali,
sistema previdenziale.
In primo luogo, è appena agli inizi, anche sotto la spinta dell’ingresso nella
Wto, la transizione dal vecchio sistema che favorisce lo Stato e il Partito
contro i privati ad un quadro normativo (diritto societario, diritti di
proprietà e del credito, regole anti-corruzione, fiscalità, corti e tribunali)
coerente con le esigenze di una vera economia di mercato. Molte micro-imprese
familiari nascono e fioriscono, alimentando l’economia sommersa, ma crescono a
fatica per la mancanza di chiare garanzie giuridiche, oltre che di cultura di
management. Non sono rari gli episodi di vasta corruzione e repressione dei
dissidenti, anche tra funzionari pubblici e piccoli imprenditori.
In secondo luogo c’è la grande sfida della disoccupazione generata dall’esodo
agricolo e dalla chiusura delle imprese statali fallimentari. Si prevede che 350
milioni di contadini, su una forza lavoro totale del Paese che si aggira sui 720
milioni, saranno destinati nei prossimi 10-20 anni a perdere protezioni e
sussidi (prezzi artificiosamente alti di riso, grani, cotone) e quindi indotti
ad abbandonare aziende agricole ancora oggi a bassa produttività (nonostante
l'importante riforma dei prezzi agricoli introdotta con successo da Deng più di
due decenni fa), andando ad aggravare una già diffusa disoccupazione urbana e le
relative tensioni sociali, le cui scintille si sono già fatte vedere la scorsa
primavera in alcune città del Nord Est. D’altra parte i divari fra redditi delle
zone urbane e rurali stanno toccando punte pericolosamente elevate per mantenere
l’ordine sociale senza pesanti repressioni. L’ingresso nella Wto comporterà
anche forti rischi per la sopravvivenza di imprese familiari che operano nella
piccola industria e nel terziario tradizionale, spazzate via dai grandi marchi e
dalla grande distribuzione locale e straniera (un esempio sono Coca e Pepsi che
spiazzano i soft drink locali). Fonti autorevoli (per esempio la Morgan Stanley)
stimano che nei prossimi cinque anni le ristrutturazioni delle quasi 50 mila
imprese statali (Soe) in cronica perdita produrranno 25 milioni di nuovi
disoccupati. Si calcola che, per non accrescere la disoccupazione ufficiale e
latente, la Cina ha bisogno di creare ogni anno 21 milioni di posti di lavoro:
10 milioni a fronte dell’immigrazione dalle campagne verso le aree urbane, 7
milioni per chi viene licenziato dalle Soe in chiusura, 4 milioni per i giovani
che escono dalla scuola dell'obbligo.
In terzo luogo vi è il noto problema dei crediti inesigibili ( bad loan ) delle
banche, valutati ufficialmente in 220 miliardi di dollari (23% degli impieghi
bancari, 15% del Pil) che in realtà sarebbero circa il doppio secondo
osservatori esterni. Un sistema bancario alimentato peraltro da una elevatissima
propensione al risparmio (quasi il 40% del reddito) della popolazione che
accetta infime remunerazioni dei propri depositi in cambio di liquidità e di
sicurezza.
I crediti inesigibili sono principalmente il riflesso di un sistema che deve
tenere in vita (di nuovo, per evitare drammatici problemi di disoccupazione) le
citate Soe: imprese che - nonostante un pesante ridimensionamento negli ultimi
15 anni - ancora oggi pesano per il 40% sulla produzione industriale, il 60%
degli investimenti fissi, il 70% del credito bancario e occupano il 45% della
forza di lavoro urbana e il 70% della forza lavoro industriale. Le perdite delle
Soe sono più che decuplicate in pochi anni, anche se oggi cominciano in alcune
aree ad emergere casi di ben riuscita ristrutturazione e conseguente recupero
dei margini di profitto. Si capisce perché in queste condizioni il sistema è
«condannato a crescere» a ritmi del 6-8% l’anno, se vuole evitare il collasso.
Sono di buono auspicio per la gestione di questa necessaria e difficilissima
ristrutturazione finanziaria alcune nomine recenti, come quella del 54enne
governatore della Banca centrale (People Bank of China) Zhou Xiaochuan,
personaggio di grande esperienza bancaria e di reputazione internazionale.
Assieme al neonato organismo di vigilanza, egli dovrà anche favorire una rapida
modernizzazione del mercato di Borsa: quasi tutte le oltre 1100 società quotate
sono ancora da privatizzare. Controllate da investitori e funzionari di partito
che un ricco privato cinese brutalmente definiva ( Economist del 15 giugno 2002)
come «neonati congenitamente deformi frutti dello stupro del capitalismo da
parte del socialismo».
Vi è infine (suona familiare?) un problema di sistema previdenziale che rischia
il collasso entro 15-20 anni a causa del rapido invecchiamento delle popolazione
e della difficile transizione verso un equilibrio finanziariamente sostenibile
fra prestazioni e contributi. Da dieci lavoratori per ogni pensionato del 1995
si tende a un rapporto di tre a uno nel 2050. Non solo: per far fronte al già
emerso deficit previdenziale, l’attuale sistema misto a tre regimi (a
ripartizione, a capitalizzazione obbligatoria, a capitalizzazione volontaria)
viene distorto, prelevando introiti dal secondo regime per coprire le perdite
del primo, con evidenti rischi di nascondere i problemi e accumulare squilibri
di finanza pubblica. Si tenga conto che, sommando debito pubblico a debito
previdenziale a crediti inesigibili, si arriva già oggi alla pericolosa soglia
del 140% del Pil (stime Clsa Emerging Markets).
I tempi della «rivoluzione culturale» sono comunque ormai fortunatamente lontani
e le nuove leadership sembrano decise a cavalcare con decisione e soprattutto
con grande pragmatismo la lunga marcia della modernizzazione del Paese. Dai loro
successi o insuccessi dipenderanno le sorti dell’economia asiatica e anche di
buona parte di quella mondiale.